Anche libero va bene
"Una volta giunti all'età adulta la vita diviene per molti un'esperienza più mentale e meno sensoriale, le cose non si vivono più con quella magica pienezza, quella tridimensionalità emotiva. E' probabilmente questo, oltre alla voglia di raccontare la parte maggiormente fondante di una vita, il motivo che ci ha spinti a raccontare un'infanzia".
Ormai lontani i tempi in cui, a soli cinque anni, apparve in "Fatti di gente perbene" (1974) di Mauro Bolognini, ma anche quelli in cui indossò per ben due volte il kimono d'oro, Kim Rossi Stuart passa dietro la macchina da presa per affrontare il tema della disgregazione familiare in "Anche libero va bene", sceneggiato con la collaborazione di Linda Ferri, Federico Starnone e Francesco Giammusso, del quale è anche interprete. Veste, infatti, i panni di Renato, trentottenne che lavora come cameraman freelance e che, abbandonato da Stefania, moglie fedifraga interpretata da Barbora Bobulova, non riesce a dare una famiglia accogliente e protettiva ai suoi due figli Viola e Tommaso, detto Tommi. Perché il vero protagonista della vicenda è proprio quest'ultimo, introverso ragazzino di undici anni splendidamente incarnato dall'esordiente Alessandro Morace, il quale, se da un lato è continuamente vittima di scherzi e dispetti da parte della sorella, con il volto di Marta Nobili, dall'altro non può fare a meno di ricordare, in un certo senso, il piccolo Antoine/Jean - Pierre Léaud del capolavoro truffautiano "I quattrocento colpi" (1959). Ed il padre, il quale racconta di essersi sempre rialzato nella vita e non ha esitato a rendere i figli tanto responsabili da poter contribuire in maniera fondamentale all'andamento della casa, si presenta amorevole e comprensivo, quanto duro e verbalmente violento, spingendosi perfino alla blasfemia, soprattutto quando Stefania, donna incapace di essere madre, ritorna a casa nel tentativo di riconquistarsi l'affetto di Viola e Tommi.
Quindi, supportato da un buon cast che mostra perfettamente di saper dirigere, il "Freddo" del "Romanzo criminale" (2005) di Michele Placido, oltre a riconfermarsi come uno dei migliori attori italiani viventi, sforna una lodevole opera prima ricorrendo ad una regia piuttosto classica, non molto lontana da quella che caratterizza tante fiction televisive nostrane (d'altra parte, tra i produttori c'è anche la Palomar di Carlo Degli Esposti), ma che, grazie alla presenza di vertiginose inquadrature a piombo sul vuoto e perfino di un'inquietante sequenza onirica, lascia emergere quella grande voglia di sperimentare, tipica di chi debutta dietro la macchina da presa. In conclusione, quindi, uno spaccato sociale di celluloide riguardante l'irresponsabilità di tanti giovani genitori odierni, il quale, non privo di un indispensabile pizzico d'ironia nella descrizione dei personaggi, spesso riconoscibile nella loro spiccata romanità, oltre a risultare tutt'altro che noioso, non appare né prevedibile, né tanto meno banale.

La frase: "L'uomo e la donna non si avvicinano tra loro solo perché sono timidi"

Francesco Lomuscio

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