Baby Love
"Che senso ha rimanere con uno che non vuole costruire niente?".
Questa è la domanda che Manu (Lambert Merovingio Wilson, sorprendente) si pone al veder sopraggiungere un bivio esistenziale come pochi ne capitano in vita. Il suo compagno Philippe (un monocorde Pascal Elbé) rifiuta d’immaginarsi genitore, la loro coppia va rapidamente in pezzi, le speranze di adozione da single finiscono decimate in poco tempo. Già visto? Prevedibile? Non diremmo propriamente così: Manu è infatti un uomo e gli insormontabili ostacoli tra la sua fetta d’amore e la genitorialità sono fisiologici, prima che meramente burocratico-legali. Que fare? Solo un accordo tra disperati - un gay wannabe papà e una studentessa argentina coi documenti scaduti da tempo - può permettere che un tripudio di buoni sentimenti veda la luce e abiti un portenfant, come da locandina infiocchettata. Il triangolo d’amore-odio sorto nel frattempo volge al sereno, come miracolo vuole - per la verosimiglianza, però, citofonate altrove.
L’indubbiamente garbato lavoro di Vincent Garenq, annunciata contempo-favola natalizia di fattura francese, affronta con piglio leggero questioni devastanti per attualità e scottante rilevanza.
L’adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale, che altrove - in Spagna, ad esempio - è ormai quieta realtà, in Francia resta un miraggio sofferto: e, con una resa sostanziosa ai botteghini d’oltralpe (incasso di più di sette milioni di euro, dicunt), il regista e sceneggiatore tenta di squarciare il velo in merito e rendere quest’incubo fatto di burocrazia e pregiudizi più vicino al pubblico di massa. Missione compiuta? Non del tutto, temiamo. Il film denota un sostenuto grado d’approssimazione nel gettare le basi stesse della vicenda. Se non propriamente di faciloneria intendiamo parlare, non possiamo però tacere dell’ingenuo ritratto dato dalla sceneggiatura alle motivazioni profonde e intrinseche che spingono Manu verso la pur dolcissima condizione avversata dagli eventi. Finisce con l’infastidire, nell’ambito di un confronto tra il protagonista e il suo compagno, il riferimento del primo alla "noia" da fuggire come causa primaria della sua voglia di paternità. "Sono stufo delle nostre cenette, delle nostre seratine, Philippe, voglio di più, sto iniziando ad annoiarmi": come sarebbe a dire?
Se il personaggio costruito con grazia prima e dopo questa pessima osservazione resta comunque un ottimo pediatra dall’animo generoso e dall’indiscussa vocazione al parenthood, il nucleo fondante della sua frustrazione dovrebbe esser fatto risiedere in un sostrato un tantino più nobile o quantomeno complesso. Associando questa naiveté alla patina di forzato perbenismo di cui la narrazione riveste Manu e Philippe, seriosi professionisti trasgressivi quanto la regina d’Inghilterra, è facile ritenere che un eccesso di zelo politicamente corretto abbia portato a una distorsione un pò grottesca della vicenda. Garenq pare avere una gran fretta di rassicurare la platea sull’innocua natura dei protagonisti a dispetto dei loro gusti sessuali: ma perché, oggigiorno qualcuno si pone ancora un simile problema? Dipingere i due in preda alla strenua necessità di conformarsi alle tradizioni festive, familiari, rituali della metà del cielo a cui piace il sesso opposto è un tantino ridicolo, dacché per evitare la macchietta dell’omosessuale sopra le righe e fuori casta si ricade in quella (improbabile e altrettanto fastidiosa) dell’inamidato benpensante. Salvo poi, sotto una colonna sonora di bassi drammatici al momento del distacco tra creaturina in fasce e utero in affitto, suggerire alla psiche dello spettatore che, dopotutto, per quanto più forte possa essere l’amore di un "padre dentro" rispetto a quello di una "madre involucro"... la mamma è sempre la mamma. Tante pretese progressiste e poi eccoci sfiorare uno strisciante conformismo ai più retrivi preconcetti.
Peccato.

La frase: "Vedi noi due con un figlio, un giorno, tu ed io, sì o no?".

Domitilla Pirro

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