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La kryptonite nella borsa











"Ogni famiglia ha i suoi segreti, ma alcuni fanno più ridere di altri" è la frase di lancio dell’esordio registico di Ivan Cotroneo, il quale, sceneggiatore, tra l’altro, di "Dillo con parole mie" (2003) di Daniele Luchetti e "L’uomo che ama" (2008) di Maria Sole Tognazzi, parte proprio dal suo romanzo "La kryptonite nella borsa" per passare dietro la macchina da presa.
Con una nutrita colonna sonora spaziante da "Lust for life" di Iggy Pop a "Life on Mars?" di David Bowie, passando per la sempreverde "These boots are made for walkin’" sia riletta dai Planet Funk che nella versione italiana "Stivaletti rossi" di Dalida, ne è protagonista, in una Napoli del 1973, il piccolo Peppino Sansone alias Luigi Catani, la cui affollata e piuttosto scombinata famiglia comprende il cugino più grande Gennaro, interpretato da Vincenzo Nemolato e che si crede Superman.
Quindi, mentre troviamo in scena anche Luca Zingaretti e Valeria Golino nei panni dei discutibili genitori del protagonista, apprendiamo che le sue giornate si dividono tra la casa e il mondo folle e colorato dei giovani zii Titina e Salvatore, rispettivamente con i volti di Cristiana Capotondi e Libero De Rienzo.
Mondo folle e colorato fatto di balli di piazza, feste negli scantinati e collettivi femminili (oltre che di acidi), ma mai tanto assurdo quanto quello di Peppino, che, dopo la notizia della morte di Gennaro, riscrive la realtà e lo riporta in vita, come se fosse effettivamente il supereroe che credeva di essere.
Perché è proprio la vicinanza di quest’ultimo a mo’ di amico immaginario a rappresentare l’accostamento al mondo degli adulti, raccontato da Cotroneo attraverso una venatura surreale decisamente atipica per la cinematografia italiana (soprattutto per quella d’inizio XXI secolo).
Venatura surreale che, infarcita di umorismo partenopeo, deriva in maniera evidente da quella presente nel serial televisivo "Tutti pazzi per amore"; del quale, non a caso, il regista è uno degli autori.
Con la risultante di circa 98 variopinti minuti di visione che, seppur gradevoli e superbamente interpretati, rischiano spesso di scadere nella confusione, con ogni probabilità a causa dell’eccessiva tendenza a rimanere legati più allo stile "da leggere" dei testi letterari che a quello che caratterizza i prodotti destinati al grande schermo.
Anche se, paradossalmente, è proprio quest’ultimo aspetto a rientrare tra gli elementi che finiscono per trasformare l’insieme nell’insolito prodotto di cui sopra, talmente diverso dall’attuale resto di celluloide tricolore da apparire ancora non poco difficile da giudicare.

La frase:
"Questa è la storia di un supereroe, di una famiglia e di un bambino con gli occhiali".

a cura di Francesco Lomuscio

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