Mille miglia...lontano
Dopo le due incursioni nel genere "cappa e spada" di "Hero" e "La foresta dei Pugnali Volanti", Zhang Yimou torna a fare cinema alla sua maniera, puntando a privilegiare la sfera intimista, quella cioè dei semplici e allo stesso tempo complicatissimi moti dell'anima: con "Mille miglia… lontano", infatti, l'autore di "Lanterne rosse", che pure aveva dato prova di estrema poliedricità alle prese con gli sfavillanti kolossals sopraccitati, conferma una volta di più quanto sia per lui decisamente congeniale narrare storie di sentimenti, fatte di piccoli gesti e di umana quotidianità.

La toccante storia di Takata, un pescatore giapponese che compie un lungo viaggio nel cuore della Cina nel disperato tentativo di riconciliarsi al figlio morente, si potrebbe interpretare ad una prima lettura come una personale riflessione di Zhang Yimou sul concetto di paternità, o meglio sulla difficoltà di essere padre.
Man mano che la vicenda si snoda però, ci si accorge che siamo di fronte ad una delicata parabola sull'incomunicabilità tra le persone, a partire dall'ambito familiare, quello che più riguarda da vicino e che non a caso più fa soffrire.
Come ogni esperienza on the road, tutti gli incontri che il protagonista fa lo aiuteranno ad intraprendere (e noi spettatori con lui) un imprevisto viaggio all'interno della propria coscienza, sì da scoprire e ri-scoprire inesplorati sentieri personali. Per magari rendersi conto che il motivo per cui si era partiti non era poi così determinante e che strada facendo si cambiano impercettibilmente prospettive, per cui non si torna più indietro.
Zhang Yimou sottolinea con le difficoltà legate alle lingue diverse l'iniziale senso di isolamento e di impotenza di Takata... saranno la sua encomiabile forza di volontà e il supporto dei contadini dello sperduto villaggio dove il destino lo ha fatalmente condotto a fargli superare ogni tipo di ostacolo.
E' proprio questo senso di profonda umanità che regala un filo di speranza all'altrimenti drammatica vicenda. Non a caso c'è spazio pure per il sorriso (su tutte le goffe traduzioni del compagno di viaggio di Takata e la compagnia di carcerati-ballerini). A sembrare sacrificato parrebbe invece il ruolo della donna: anche qui si vedrà invece come in una storia così al maschile due sole figure femminili bastino far sì che il loro contributo di "mediazione" si riveli fondamentale ai fini della storia.

Da sottolineare infine che, a parte la sobria e misurata presenza della star nipponica Ken Takakura, il resto del cast è pressoché costituito da attori non professionisti, quasi a suggellare un ritrovato spirito neorealista che ben si adatta all'immediatezza narrativa che Zhang Yimou cercava e che con la consueta eleganza ha trovato.

La frase: "Le persone che si vogliono bene non dovrebbero mai mascherare i loro sentimenti".

Stefano Del Signore

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